Ho iniziato a fotografare durante i primi anni di alpinismo. Volevo immortalare non solo la bellezza delle montagne ma anche l’arrivo sulla vetta o un passaggio di arrampicata particolarmente difficile o esposto. Vivevo la fotografia come mezzo di documentazione dell’ambiente naturale o come prova del raggiungimento di una cima difficile. Naturalmente il blu del cielo dell’alta quota, le intense tonalità di un tramonto o le luci abbaglianti di un ghiacciaio non potevano che essere riprese a colori.
Per molti anni ho quindi girato tra le montagne delle Alpi con una piccola macchina fotografica, molto leggera, posta nello zaino o appesa all’imbracatura. In effetti quando lo scopo è scalare una strapiombante parete di roccia o arrivare sulla vetta del Monte Bianco lungo enormi pareti di ghiaccio costellate di seracchi, il peso dello zaino diventa un elemento vitale e un pensiero ossessivo.
Grazie all’Himalaya e al Karakorum ho iniziato ad avere con la fotografia un rapporto meno utilitaristico. Le magnifiche fotografie del giapponese Shiro Shirahata, realizzate sia in Himalaya che in Karakorum con una fotocamera di grande formato, e pubblicate in due splendidi volumi, mi avevano colpito profondamente. Per la prima volta mi venivano rivelati una purezza, una luminosità e un senso di perfezione, che fino a quel momento mai avevo visto. Però a quel tempo l’alpinismo era ancora così totalizzante da non consentire alla macchina fotografica di recitare un ruolo da protagonista.
Ci sono voluti molti anni perché ciò accadesse, e la trasformazione da alpinista a fotografo è potuta iniziare proprio grazie a Shirahata e alla fotografia realizzata con una fotocamera di grande formato.
Un giorno, tornato da qualche settimana dalla spedizione fallita all’Annapurna I, dopo aver camminato tutto il pomeriggio avanti e indietro nel salotto di casa a Milano pensando alle fotografie di Shirahata, decisi istintivamente che anche io volevo provare a catturare quella magia che mi era stata rivelata. Qualche mese dopo, con la mia nuova Linhof, le sue grandi pellicole piane da 4×5 pollici (circa 10×12 centimetri) e 11 obiettivi, camminavo su un ripido sentiero del Monte Bianco. Lo zaino di trenta chili era molto simile ai tanti già trasportati nella mia carriera da alpinista, ma al suo interno era presente una nuova visione.
La vita di ognuno di noi è in continua evoluzione e ogni nuova esperienza implica un nuovo accrescimento interiore, una nuova consapevolezza, una nuova prospettiva.
Fotografare la montagna a colori era il primo passo verso una visione più completa e matura di sentire e rappresentare il mondo, verso un modo di intendere la fotografia che avrebbe espresso, anni più tardi e in maniera ancora più compiuta, la mia anima.
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