Ho già sottolineato come la stampa, cioè il trasferimento sulla carta dell’immagine contenuta nel negativo, è il momento più creativo dell’intero procedimento fotografico. A seconda della sensibilità del fotografo si possono utilizzare tecniche e carte diverse che danno luogo a un ventaglio ricchissimo di sfumature espressive. Una tavolozza di possibilità infinite che trasmette a chi guarda una gamma di sensazioni ed emozioni diversificate, e che consente al fotografo di dare forma alla propria visualizzazione: all’emozione vissuta al momento dello scatto.
Lo scatto dell’immagine, il momento in cui il negativo viene impressionato, è solo il primo dei complessi passaggi che originano una stampa ai sali d’argento. Seguono lo sviluppo del negativo, la realizzazione di una prima stampa a contatto del negativo, quindi le prime prove di stampa con l’ingranditore su carte diverse al fine di esplorare tutte le potenzialità del negativo stesso. Successivamente, attraverso numerosi tentativi, si affinano sempre più le stampe di prova fino ad arrivare alla vera e propria stampa espressiva, detta stampa “Fine Art”. Per dare l’idea della complessità del processo di stampa, basti sapere che Ansel Adams, uno dei più importanti fotografi della storia, impiegò anche svariati decenni prima di riuscire a stampare un determinato negativo proprio come lui voleva, cioè prima di riuscire a trasferire sulla carta quello che aveva visto e sentito al momento dello scatto.
Accanto al discorso creativo, esiste la non meno rilevante questione della conservazione. L’immagine fotografica ai sali d’argento, infatti, non è stabile – anche se lo è molto di più delle moderne stampe digitali, che hanno una vita di gran lunga inferiore. Le cause del decadimento di una stampa possono essere chimiche o biologiche e possono interessare l’immagine vera e propria, il legante o il supporto. Per questi motivi, il tipo di trattamento chimico in fase di sviluppo, e il successivo lavaggio, sono fondamentali per assicurare una durata nel tempo che sia la più lunga possibile. È quella che viene chiamata “stabilità, o permanenza, d’archivio” e che permette alla stampa di durare anche più di duecento anni. Per i fotografi statunitensi, il problema della stabilità d’archivio è un aspetto fondamentale preso in considerazione già da molto tempo. In Italia, invece, è un aspetto ancora poco conosciuto.
Va precisato che i problemi di conservazione si incontrano in tutte le fasi del lavoro fotografico. Bisogna conservare in buono stato sia il materiale vergine sia quello esposto, ma anche le soluzioni e i prodotti chimici impiegati per la loro preparazione e, da ultimo, le immagini finite. La fotografia, più che un bene di consumo, dovrebbe essere considerata un bene durevole e un valore culturale da proteggere. Per questo l’aspetto della conservazione è così importante. Esistono per fortuna in commercio materiali di qualità che assicurano un’eccellente stabilità d’archivio a una stampa ben sviluppata e ben lavata.
Nel mio lavoro in camera oscura, curo sempre il più possibile l’aspetto della stabilità d’archivio, benché ciò sia estremamente impegnativo sia dal punto di vista del tempo richiesto sia da quello economico. Garantisco infatti alle mie stampe un trattamento con soluzioni fresche di doppio fissaggio, seguito da un trattamento di viraggio al selenio, cui si aggiungono infine un bagno di “hypo-clearing” e un lavaggio finale di un’ora e mezzo in una lavatrice verticale professionale, a una temperatura compresa tra i 18 e i 22 gradi.